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On the road – Le sofferenze dei migratori moderni

di Bernd Faas

L’accelerazione dei processi nel mondo del lavoro costringe un numero sempre maggiore di persone ad una vita da nomade di lavoro.

Ieri l’Erasmus a Coimbra, oggi lo stage a Manchester, domani il lavoro ad Amburgo, seguito dalle mission di lavoro in mezzo mondo.

E dopo qualche anno il lavoro aspetta in un’altra città, in un altro paese.

Tutto il mondo è diventato un unico villaggio, collegato tramite voli diretti e tramite Internet.  Siamo sempre on the road nell’epoca del lavoratore globalizzato.
La società contemporanea e la necessità di formarsi e di lavorare offrono oggi infinite opportunità all’estero per accrescere il proprio bagaglio personale e professionale. Ma hanno anche delle conseguenze importanti sul piano psicologico.

L’estero come opzione temporanea nel proprio percorso di vita ne sta cambiando i tratti in modo decisivo. Se una volta, con il lavoro fisso, la vita si svolgeva secondo un iter più o meno lineare, oggi invece il cambiamento è sempre dietro l’angolo.  Pianificare la propria vita, la famiglia, la casa, quando il prossimo cambiamento è fra 6 o 24 mesi, richiede una fatica degna di Ercole.
Sembra che non possiamo più rinunciare alle occasioni che potrebbero migliorare lo stipendio, lo status sociale, il nostro orizzonte.

Con un grande rischio: quello di perdere le coordinate della nostra vita. Il radicamento in un luogo è fondamentale per la nostra identità, perché si basa sull’esperienza. Il confronto tra ieri (“quanto sono stato ingenuo”) ed oggi (“finalmente sono grande”), ci fa capire chi siamo: un italiano, un genitore, un lavoratore, uno spirito libero. L’esperienza ( per esempio quella degli errori e quella dei successi) ci fa crescere e ci aiuta nel fare le scelte.

Se però viviamo dei cambiamenti continui, ci tocca ricominciare ogni volta da zero. Siamo in movimento perenne, ma non riusciamo ad elaborare gli eventi per rafforzare noi stessi e trovare serenità. Sperimentiamo lo stallo . . . in movimento, dove in fondo il posto attuale non ha importanza, perché domani potremmo già essere lontani.

Non assimiliamo più le differenze tra i luoghi di permanenza temporanea. Definiamo un posto secondo il supermercato, il panettiere, il trasporto pubblico, e non tramite i paesaggi, gli alberi, le vie, i corsi d’acqua. Non nasce una relazione personale con il luogo, tutto sembra uguale dappertutto, come il Big Mac.
Chi sta lontano, è spesso costretto a sviluppare dei comportamenti che tengono tutto in sospeso. Il confine tra ambito lavorativo e ambito privato tende ad essere cancellato. I colleghi diventano conoscenti con i quali si fanno diverse attività. Finché arriva il trasferimento in un altro posto. Rispetto a quelli del paese natale i rapporti e i contatti sono decuplicati, ma manca il tempo per conoscersi veramente e instaurare un’amicizia profonda.
Per non essere fagocitato dal movimento in sé e per sé e dall’indifferenza verso il luogo, la cultura e le persone, servono degli ancoraggi che permettono di vivere bene e che ci ricordano come eravamo e come vorremmo essere.
Questi possono essere la casa nel luogo dell’infanzia, che per qualche volta all’anno diventa luogo d’incontro con il proprio passato, oppure lo sviluppo mirato della carriera professionale intorno al bagaglio formativo. Oppure il partner, la religione, l’hobby della pittura, ma può essere anche un rito che si ripete ogni giorno come la corsetta serale o l’esercizio di yoga.
Senza punti fermi nella vita in movimento, c’è il rischio di ritrovarsi senza luogo.

 

© Bernd Faas